Incomincerò con un ricordo personale che illustra bene l’argomento: quando da ragazza studiavo filosofia sul manuale del prof. Lamanna, mi imbattevo spesso in un’espressione che proprio non mi riusciva di capire: la cosiddetta “finitezza umana”.
Mi trovavo, allora, in quell’età felice in cui la vita si dispiega davanti a noi come un’indefinita – e dunque infinita – distesa di giorni nel susseguirsi dei quali tutto è possibile. Ma che cosa sarà stata mai questa “finitezza umana” che ritornava tanto insistentemente nel mio manuale di filosofia?
Molto tempo è passato da allora e oggi, anche grazie alle lezioni di un insegnante severo che non mi lascia mai, credo di sapere molto bene che cos’è la finitezza umana. Accettare la propria finitezza significa accettare che questa distesa di tempo e di possibilità sia riducibile a un numero preciso – ancorché imprevedibile – di giorni e in nessun luogo ne siamo tanto consapevoli quanto al capezzale di un malato che si dibatte nelle spire del fine vita.
Abbiamo qui, io credo, l’essenza di ciò che gli esseri umani sono soliti aspettarsi dalla vita: un’adolescenziale assenza di limite. Ma, prima o poi, l’impatto con il volto oscuro delle cose è inevitabile. Limite, ovvero: depressione e povertà, vecchiaia e malattia, solitudine e privazione. Sconfitta, senza rimedio né rivincita.
Non è questa la sede per invettive contro una cultura dell’apparire che ci propina la falsa immagine di un’umanità eternamente giovane, forte, vincente. Mi sembra tuttavia innegabile che saper accettare la propria mortalità implichi la consapevolezza che la nostra vicenda terrena ha una precisa collocazione nello spazio e nel tempo che la definisce e la circoscrive.
Penso anche che per riconciliarci con la nostra morte un passaggio essenziale sia il riconoscimento della struttura duale del mondo. Vale a dire che il mondo in cui viviamo è, come nel pensiero di Nicola Cusano, una complexio oppositorum.
In parole semplici si tratta di riconoscere il fatto che se possiamo pensare il giorno è perché abbiamo nozione della notte, e via così per tutte le coppie di opposti in tensione fra loro che costituiscono il tessuto del mondo.
Per concludere: quello che occorre, a mio modesto avviso, a questa umanità di inizio millennio, è un radicale cambiamento di prospettiva che le permetta di riconciliarsi con la sua mortalità. Là dove “mortalità” – tengo a ribadirlo – non sta a significare l’evenienza reale del proprio trapasso, bensì la consapevolezza di essere creature limitate e finite la cui avventura terrena si consuma tra le due date della nostra entrata e della nostra uscita dal “teatrino dello spazio- tempo”.
Per questo, quando l’ora è giunta e il destino chiama, io credo che il compito più alto della scienza non sia di aiutarci a restare sulla scena quanto più a lungo possibile, quali che siano le nostre condizioni, ma di aiutarci ad uscire di scena con grazia o, almeno, con dignità.
Da ultimo è mia radicata convinzione, che per riconciliarci con la nostra transitorietà di esseri umani sia indispensabile ritrovare nelle profondità del nostro essere l’amore per la Vita.
Ma che non sia un amore superficiale e da quattro soldi, perché quello che ci manca – quello che manca disperatamente nelle vite sonnolente e smorte che trasciniamo spesso nella noia – è un amore per la Vita genuino e pieno di passione, un amore scatenato e allegro, un amore vibrante e spudorato che gridi alle galassie e all’universo intero quanto sia stato bello essere qua.
Lucilla Bossi